venerdì 18 ottobre 2024

Signor Salvatore



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Che le parole sono importanti non c’è bisogno che ce lo ricordi il film di Nanni Moretti, e che vengano da lontano non c'è bisogno che i dizionari ce lo rammentino, indicando una parola come arcaica, o di derivazione greca, oppure latina accanto alla definizione italiana scritta in grassetto.

Eppure capita che una parola vecchia, lontana, lontanissima, come il greco “therapeia”, confluita poi per strani versi più culturali che linguistici nel latino “cura” e nell’italiano “la cura” e da qui “curare” e “prendersi cura”; si scopra sotto una nuova veste. Insomma, che riscopra in sé un quarto senso, in un ambito ristretto per un uomo soltanto o forse qualcuno in più. Per chi, come dire, vi è venuto in contatto.

Io sono stato sempre, da che ne ricordo, un appassionato di informatica e programmazione. Ci sono tante storie che riguardano programmatori, hacker, ingegneri che ho letto e conosciuto e che mi hanno colpito, fatto riflettere e pensare.

Eppure nel 2012 (non ricordo quanti anni avessi, lascio i calcoli ai bravi matematici) sono stato testimone silenzioso di un fatto straordinario.

Sì, nel 2012, Salvatore Iaconesi, hacker e artista digitale italiano, si ammala di tumore al cervello e viene dato per malato terminale dai medici che lo visitano.

Una diagnosi funesta, per molti l’ultima, chiusa in un dischetto di una TAC al cranio e nelle cartelle cliniche erogate dai vari sanitari durante il periodo in cui noi tutti credo, avremmo cercato una “cura”, o ci saremmo abbandonati al fato.

Salvatore Iaconesi, per quanto noi testimoni lontani e vicini possiamo sapere, non sceglie né l'una né l'altra.

Jean-Paul Sartre, avrebbe detto: quando una via non c’è, la si inventa.

E forse per questo Salvatore, decide di hackerare la sua cartella clinica e la rende pubblica, ne estrae le immagini e le carica su un suo sito, chiamato “La Cura”, ancora oggi visitabile, dove tutti gli utenti potevano ed erano invitati a pubblicare qualsiasi tipo di contenuto: fossero essi immagini, disegni, poesie, consigli medici professionali o altrimenti solo pensieri, purchè contribuiscono a quella che lui chiamava "La Cura”.

Si, perchè prima si parlava di parole, e non se ne parlava a caso: “cura”, “therapeia”: sono parole intransitive in latino e in greco, e non significano come in italiano curare (una malattia), curare (un paziente). Questi sono portati ribaltati, significati forse di una società in cui la sanità e la cura sono un business, e i pazienti sono complementi oggetti paganti (anche se fortunatamente esiste ancora in Italia una sanità pubblica). Le etimologie originali invece, indicano piuttosto, come accade in inglese per la differenza tra “to cure” e “to care”, il prendersi cura di qualcuno, l’interessarsi a, o di qualcosa.

La storia continua: Salvatore si opererà anche grazie alle consulenze mediche dal progetto “La Cura” e vivrà fino al 2022 quando “il nostro tumore”, come veniva chiamato dai partecipanti e dalla moglie di Iaconesi, purtroppo troverà un recidiva importante. Lui ci teneva sempre a specificare che la medicina si fa in ospedale, che non cercava cure miracolose o mirabolanti.

Eppure credo volesse in qualche modo testimoniare col suo corpo, quanto di più reale ci possa essere, e far ritornare alla sua origine il concetto di cura, quello di essere insieme e quello di essere malati.

E in qualche modo insegnarci, credo, che insieme le cose si possono cambiare; affrontare e vivere in maniera non solo diversa, ma diametralmente opposta, alle volte, a quello che ci sembrano.

Una malattia mortale può diventare un spunto per vivere. Un disagio può diventare una risorsa, paradossalmente quasi una cosa bella nella sua tragedia.

E ridefinire da dentro, il concetto profondo di bellezza.

Forse è blasfemo da dire, ma se un tumore inspira un quadro o una poesia, non sarà meno negativo, certo, ma avrà creato e dato senso. Avrà un senso. Perché una malattia non va solo debellata, e non è importante solo se la si può debellare o no. È parte della vita, e per quanto possa essere considerata una sfortuna, una tragedia, o un dolore, non c’è alternativa a viverla. Insomma non si sceglie, si sceglie (nei limiti) come la si affronta e la si vive.

E se Salvatore ha fatto del suo male oscuro (la malattia che si tiene spesso più privata) un atto e un moto pubblico, non solo di fiducia nel prossimo e nella sua “therapeia”, ma anche sicuro del suo amore di ritorno; io credo che questo ci possa insegnare che La Cura, quella insieme, quella di condividere il dolore, il donarlo a chi lo riceve, l'amarlo e il trasformarlo per chi se ne deve curare, non vanno a sminuire l’importanza e la mole del soffrire: ma quel macigno gigantesco, lo possono cambiare. Lo possono affrontare, ci possono aiutare a spingerlo fino in cima alla scarpata, nonostante per gettarlo nell’abisso ci voglia il nostro braccio e il nostro consenso espresso.

Ecco, che le persone hanno un potere, quando stanno assieme. Che a volte è funesto, a volte un magico potere di salute e di bene.

Ed è vero che non siamo dei santoni, non possiamo insieme far sparire un tumore o ridare le gambe a chi non può camminare.

Ma come direbbero i greci e i latini, beh, intransitivamente: “Lo possiamo curare”.


iononquadro


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