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Era in un principio di pomeriggio, o forse solo ad un certo punto di esso, che la noia e un sole spento (e incerto) si stiracchiavano sul vettore stanco del mio tempo.
Una noia tutt’altro che noiosa, però; o comunque, l’era solo al primo sguardo. Perché solo in quel pomeriggio che scivolava lento, in un tramonto rosa fiocco, poteva sembrare questa cosa… una cosa fastidiosa al mondo. Anzi era una cosa consueta, conosciuta e soprattutto così foriera di idee non ancora in concreto, ma in qualche modo sul bordo del precipizio del fare, che io in quel pomeriggio mi guardavo questa noia, con l’occhio pendulo, e le idee… però: meravigliate. Le idee annoiate all’inverosimile, le idee faticose. Che pensarle è un atto ginnico, uno slancio di belle atlete tornite. Idee sempre tra il voler scendere e il non voler scendere alla nostra valle delle cose… Insomma venire o non venire, fra le cose nostre vere, comparire come nostre lampadine sulle nostre teste sconsolate, ma desiderose anche solo di qualcosa che non sia lo sciabordio di questo tramonto d’una vita, senza fare.
Queste idee talvolta le chiamiamo l’ispirazione, la creazione, il genio. Altre volte solo fughe da un’impaccio millenario. Magari in un pomeriggio, giusto per ridondanza, da indicare come “solo noioso e basta”, ma anche sornione, furbo e lesto. Insomma il tipico pomeriggio che farà forse la storia del nostro piccolo mondo con un guizzo di genio, oppure rivoluzionerà solo il nostro salotto, con l’idea di un nuovo divanetto.
Mi agiravo per la casa, mi agitavo e sonnecchiavo, aprivo un libro e lo chiudevo. Mi stiracchiavo… abbondantemente solo, anche se non solo in senso umano, in un senso più ontologico/divino. Come può sentirsi solo un Dio, a cui non è venuto in mente l’uomo.
Silenziso mangiucchiavo, qualche snack dolce o salato, e mi ascoltavo vecchie canzoni che in altri momenti avrebbero suscitato esplosioni emotive da boato, ma che ora erano soltanto come ricordi di altre persone che io non sono; come case, con oggetti belli, eppure abbandonate da ogni uomo. Le piccole merendine che ingollavo, un palliativo delle ore. Niente a che fare col nutrire. Con l’accudire la salute. Ore lunghe, lunghe di tremende penitenze senza dolore. Io, solo al conto del tramonto, e le sue nuvole. Come compagna, solo lei, la noia; e le sue vecchie quattro attività scariche.
Con lei al fianco, tutto si muove piano, come un bradipo senza scopo. Ha un metabolismo inverosimilmente lento, un volto senza sguardo, un tempo in cui al tempo non esisteva in tutto il mondo un singolo orologio.
La noia è un luogo vuoto, centinaia di stanze, locali e corridoi senza niente e nessuno, da cui tutti sembrano voler fuggire, o almeno che vogliono arredare in modo umano. Con antidoti pratici del fare, a quelli più sottili dello stare sempre assieme. Inzepparsi i calendari, come maritozzi senza pane, appuntamenti vari, o le playlist con sempre nuovi brani, serie e film e canzoni. I cellulari di giochi e applicazioni, i social di nuovi amici.
Tutti tentativi scarni e mal riusciti di sentirsi ancora parte dei nostri attimi spariti.
La noia, certo, non è una condizione di piacere. Eppure in qualche modo è il motore immobile del fare.
La noia forse è il trasparente trasparire che sta dietro ogni colore del sapere: è lì presente; e certe volte si scopre, come un bimbo con le coperte nelle notti d’estate, e ci fa svegliare col naso in raffreddore.
La noia dice tante cose. Parla e ci chiede, di ascoltarla parlare. Senza giudizi o cose varie, e senza intromissioni o gambetese.
La noia ci chiede di presenziare al suo capezzale, ma poco di dire. Molto di sentire.
È sempre moribonda, emaciata e stanca, ma chi l’ha vista al cimitero non l’ha vista tra le bare o in qualche giara funesta.
Perchè la noia è sterile e morta, ma non è infeconda.
Ci occompagna lungo le nostre passeggiate, nelle sale d’aspetto dei medici che fanno aspettare, in fila alle poste, nei negozi e nelle banche di paese, con una canna da pesca in mano, fra le onde oppure al cinema senza piacere. In alcuni bar tra bevute solitarie.
E noi, tutti fotografi col cuore in mano, aspettando sempre il nostro scatto del secolo, domandiamo alla noia un’idea dal colore lucido.
Qualcosa che ci riempia il cuore, di nuova voglia di vivere, ridere, appassionarci alle storie vere. O anche solo un motivo, per seguire con gli occhi ancora le lucciole e i delfini nel mare.
Anche solo d’uscire da un impaccio sottile, da un’emozione amica/nemica che ci tiene in catene.
Però la noia sta zitta, sta in silenzio, sta muta e minuta.
Ascoltarla è come vivere nell’eco, di una cattedrale vuota.
Al centro della navata, per quanto silenzioso, c’è un rumore incessante e cieco: un rumore caldo e freddo, bollente e gelato. La noia è il tiepido fastidioso.
La noia è un prurito.
Perché quando si ha la noia a casa propria o altrove, nessuno comunque è a casa sua fra le sue cose.
Si e sempre di là, o soli o alieni, e nauseati. Poi però, la noia ci perdona, forse c’ama, o ci prende a compassione.
Ci accompagna fuori al sole, ma scompare.
É l’unica emozione che se ci ha a cuore, ci lascia stare.
Prima che chiunque al mondo, possa identificare con assoluta precisione questa cosa senza nome…
…come è venuta, lei, sembra scomparire.
iononquadro
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