venerdì 19 luglio 2024

La Tortora

“Eravamo poveri. Poverissimi di vocaboli. Potevamo contare sulle dita delle mani, le emozioni che potevamo pronunciare con cognizione, e l’uso della ragione era solo abbozzato come uno schizzo di un disegno, come la forma delle gocce contenute nell’oceano, la polvere nell'universo o gli arrivi dei treni, nel tempo di un viaggio mai viaggiato ma intrapreso col pensiero. Eravamo un grande blocco di travertino con dentro un bambino, forse una madre e un padre artigiano, eravamo una gigantesca statua sotto le mani di Michelangelo. Eravamo un foglio bianco. Un universo mondo. Uno spartito tenuto a mente da Mozart, ma mai scritto. Una rosa contenuta nel germoglio di una rosa al freddo.

Ed eravamo un poeta, un poeta analfabeta, muto, cieco, persino senza udito ma col dono della vita.

Un poeta silenzioso.

Un poeta che comunica col cuore delle cose, e che trattiene il fiato del non detto nel polmone, nel ventre di una madre, nelle maree di una placenta genitrice.

Un poeta che soffre e che sa amare. Sorridere e digrignare i denti dal dolore.

Un poeta del colore, ma privo dell’abilità del disegnare. Eravamo bambini, neonati, fanciulli, creature o come vi pare chiamarle.

Impegnati, ecco, a provare un emozione.

Credo sia questo il fatto, una vera emozione.

Un'emozione di cui ancora non si poteva parlare…”

Il ragazzo, seduto in prima fila, davanti al palco con qualche luce partita e le tende del sipario semichiuse, come a protezione dell’intimità dell’attore, sorrise, all’ascolto di queste poche parole.

Andò giusto al bagno, prima della fine dello spettacolo, e sorrise un paio di volte allo specchio appannato e pulito. Un tizio gli urlava da fuori di fare presto, se la stava facendo sotto. Ma lui si lavò accuratamente le mani morbide, e senza fretta lascio il bagno fra gli improperi del frettoloso. Il vento era estivo, mentre faceva la scale accanto ad un ballatoio scarsamente illuminato e rientrava in un teatro cavo, vuoto e pieno di eco.

Era una faccenda delicata, questa vita. E si accorgeva con quanta cura andasse trattata. Cercò di intrufolarsi fra i camerini e si beccò due minacce e un mezzo pugno sulla spalla.

Si appostò così dietro il teatro, all’uscita degli attori. E li vide uscire silenziosi ad uno ad uno, come fantasmi struccati. C’erano le attrici, ancora poco coperte, nei loro vestiti leggeri e reggiseni di tela bianchi, alcune con pellicce fuori moda e fuori stagione, e qualche attore, con i pantaloni a sigaretta e le bretelle quelle strette strette, la giacca fra le dita lunghe o dietro le schiene curve.

Sorrise, lo vide arrivare.

“Salve…” gli disse.

“Salve, la posso aiutare?” rispose l’attore, stupito.

“Ecco in realtà… io…”

“Sì?” chiese.

“No… ecco… non credo potrebbe capire…” e fece per andarsene il ragazzo, voltando le scarpe.

Ma l’attore sorrise, lo trattenne. Lo invitò a stare tranquillo, e a sentirsi ascoltato.

Il ragazzo spaventato sotto un cielo plumbeo che volgeva a un tramonto fulmineo, quasi divenuto un bambino solo, una barchetta di carta nell’oceano, gli chiese:

“Mi insegnerebbe a parlare, signore?” e sorrise, come si fa per paura, come fanno i castelli con le mura o il sole con le nuvole o la luna eclissata una volta al secolo, con i fondi oscuranti delle bottiglie affumicate.

L’attore, seppur molto interdetto, lo invitò a camminare verso un luogo imprecisato.

“Mi spieghi…” gli disse.

Il parco dove si trovarono a passeggiare era fresco e c’era una luce da bordo-oceano nel laghetto sporco e insalubre. Gli uccelli cantavano il loro canto come doveva essere da secoli lungo tutti i tramonti di tutti questi mondi terreni, nella lingua più antica e bella dei 5 continenti. Il ragazzo indicò quegli uccelli, e disse all’attore, semplicemente: "Perché non posso farlo?”

"Perchè non posso esprimermi così, con la stessa naturalezza e facilità di una tortora?”

"Perché non posso parlare la lingua del mio cuore, come con un’emozione che parla? Lei fa della lingua la sua professione, lei ha parlato di fanciullezza e di emozione nel suo spettacolo, dunque mi risponda, la prego!” disse il ragazzo che già cominciava a sentirsi rifiutato, ancora una volta non capito nel suo bisogno spontaneo.

"Perché il mio cuore non parla dalla bocca? Perché la mia lingua riduce le parole del mio animo a una insalata sofisticata di significati e declinazioni della vera vita? Insomma, perché la mia storia, la mia lingua, mi ha tolto il dolore di bocca?” chiese il ragazzo all’attore, che silenzioso tirava fuori un copione dopo l'altro dalla sua borsa di pelle. “Io c’ho qui una cosa” disse il ragazzo, indicando il suo petto. “Che esce solo quando piango, forse a volte quando rido. Spesso quando sono innamorato perso. Non so spiegare meglio questo dolore bellissimo, questo colore profondamente nascituro e nascosto. Ma vorrei da lei che mi insegnasse a parlarlo…”

L'attore gli fece vedere i copioni. Prima uno di Shakespeare, poi uno di Beckett e via così fino alla noia. Aveva un'espressione interdetta e silenziosa. Dubbiosa. Alla fine fra le sue carte ravvide che non aveva insegnamenti da dargli. Stava rimettendo tutto a posto, intristito, quando il ragazzo indicò un foglio. Non riguardava nemmeno il teatro in generale. Era una sorta di dialogo, vergato a penna con qualche accordo musicale sopra le righe. Molto educate.

“Ho provato a trascriverla ieri dalla radio, avevo la chitarra in mano ed ecco, questo è il pessimo risultato che ora penso di aver tirato fuori” gli disse l’attore titubante, con le sopracciglia curve come grucce.

“Prendila, se pensi che ti possa aiutare…” disse.

“Tu sai suonare…?” chiese al ragazzo mentre l’ora era tarda e il sole inseguiva la stelle per strade che non saranno toccate e percorse.

Passò forse un mesetto, magari un paio di lune storte. Un paio di feste e una serata triste da passare davanti alla televisione senza particolari voglie. Lo spettacolo era andato bene. Molto bene. Le persone contente gli portavano rose e altri regali graditi nei camerini. Era chiuso nel bagno freddo a lavarsi i denti e a struccarsi dopo lo spettacolo. Lo vide con la coda dell’occhio, sempre nello stesso punto, ad aspettarlo fuori dall’uscita degli artisti in un semibuio drammatico.

Scese in tutta fretta, lo salutò e gli chiese cosa ci facesse lì seduto, all'umido.

Il ragazzo disse solo: “Ricambio il favore, maestro” e imbracciò una chitarra, che aveva appoggiata ad un muro e che sembrava buttata nel secchio.

La musica da prima leggera crebbe nelle vie limitrofe al teatro silenzioso, e quasi come vasi comunicanti lo spettacolo si spostò dall’altra parte della via, davanti all’uscita degli artisti. La gente piccola piccola commentava con le mani a coprire la bocca, mentre l’attore poteva ancora sentire una somiglianza con la canzone originale, da lui trascritta. Ma come farcita di un dolore, di un autenticità e di un amore, da una voce roca e animata dai fantasmi del vivere, come plasmata da uno scultore di parole e di voce, come da un poeta di fuliggine che nasconde braci infinite: sempre uguali nel rosso vivo nelle loro sfumature di essere vive.

Gli applausi tardarono ad arrivare, per un fatto di meraviglia e altre cose meravigliose.

“Grazie per avermi insegnato a parlare” disse il ragazzo prima di sparire lungo una via anonima e solita.

Prima che l’attore urlasse “Grazie a te, mia Tortora…”.

E tornasse alla sua vita grigiastra fatta di parole e amore, per il concetto stesso di parola.

A una vita che parla, a suo modo.



E non c'è altro che importa, fra terra e cielo.





iononquadro

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